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Pediatria
Fabio Di Todaro
pubblicato il 12-06-2019

Diabete di tipo 1: un farmaco «ritarda» l'arrivo della malattia



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Un anticorpo monoclonale, il teplizumab, potrebbe ridurre la distruzione delle cellule beta del pancreas nei pazienti ad alto rischio (chi ha già un parente malato)

Diabete di tipo 1: un farmaco «ritarda» l'arrivo della malattia

Sono una nicchia, rispetto a coloro che soffrono della forma metabolica della malattia. Ma i diabetici di tipo 1 sono anche coloro che vedono maggiormente inficiata la qualità della vita. Primo perché non di rado la malattia viene scoperta durante l'infanzia o l'adolescenza: cosa che la rende più difficilmente tollerabile agli occhi dei piccoli pazienti, almeno quindicimila in Italia. E poi perché, di fatto, è una malattia non prevenibile. Per cui, nonostante l'evidenza preliminare, c'è interesse attorno alla possibilità che un nuovo farmaco possa ritardare l'insorgenza del diabete di tipo 1 fino a due anni.  

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Diabete di tipo 1: una pillola per ridurre l'insulina?

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SPERANZE DA UN ANTICORPO MONOCLONALE

La notizia è giunta dal congresso dell'American Diabetes Association appena conclusosi a San Francisco. Nel più importante appuntamento annuale dedicato alla malattia, i ricercatori statunitensi hanno presentato i dati di efficacia del teplizumab, un anticorpo monoclonale in grado di legarsi a un complesso molecolare (CD3) che costituisce il recettore dei linfociti T. Nello specifico, il CD3 è considerato un bersaglio efficace per inibire la risposta nelle malattie autoimmuni: come per l'appunto il diabete di tipo 1. Gli autori dello studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine, hanno evidenziato che il ricorso a teplizumab ha portato alla comparsa della malattia nel 43 per cento delle persone trattate per due settimane (in media entro i quattro anni dalla cura). Al contrario, il diabete di tipo 1 si è manifestato nel 72 per cento di coloro che avevano ricevuto il placebo (nell'arco di due anni). Il tutto in un target persone ad alto rischio: familiari di primo grado (sani) di pazienti già con una diagnosi di diabete di origine autoimmune


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INTERVENTO PRECOCE: UNA SPERANZA PER I GIOVANI?

Teplizumab si è rivelato efficace (studio di fase 2) nel ritardare il danno a carico delle cellule beta del pancreas, deputate alla secrezione dell'insulina. Cellule che, nei pazienti diabetici, diventano il bersaglio dei linfociti T. La loro distruzione determina l'inibizione della sintesi di insulina: aspetto che rende impossibile la conversione del glucosio in energia. In questa situazione si determinano inoltre picchi di glicemia che, nel tempo, possono contribuire al danneggiamento di vene e arterie e favorire la comparsa di problemi nella circolazione a livello dei piccoli (danni agli occhi, ai reni, ai nervi) e dei grandi vasi (con il rischio di vedere insorgere un ictus cerebrale o un infarto del miocardio). Da qui l'importanza, se non di evitare, quanto meno di procrastinare la comparsa della malattia (gestibile soltanto con iniezioni quotidiane di insulina). «Per la prima volta abbiamo visto che la diagnosi del diabete di tipo 1 può essere posticipata con un trattamento preventivo precoce - ha spiegato Lisa Spain, coordinatrice dello studio -. Questi risultati, se confermati in fase 3, potranno avere implicazioni importanti soprattutto per i giovani». 

I PUNTI ANCORA IN SOSPESO

Questo perché i pazienti più giovani, oltre a essere chiamati a convivere più a lungo con il diabete di tipo 1, sono anche quelli in cui la malattia progredisce più velocemente. Rimangono da chiarire alcuni punti prima di valutare l'opportunità di somministrare un farmaco a persone che comunque sono ancora sane. Intanto occorre capire se esista un gruppo di specifico di potenziali pazienti in cui Teplizumab è più efficace. Dopodiché servirà chiarire se possa essere considerata sufficiente la presenza di un caso di malattia in famiglia per avviare la terapia (anche per questioni di sostenibilità economica). «Questa è comunque la conferma che decenni di studi per comprendere la biologia della malattia possono portare allo sviluppo di trattamenti promettenti», ha aggiunto Griffin P. Rodgers, direttore del programma diabete, malattie digestive e renali del National Institute of Health (Nih). Non è (ancora) il caso di parlare di prevenzione del diabete di tipo 1, ma in un editoriale pubblicato assieme all'articolo, gli autori (Clifford Rosen e Julie R. Ingelfinger) ipotizzano che da questo studio «possa partire un lavoro mirato ad affinare i criteri di screening per persone ad alto rischio, al fine di intervenire sul decorso della malattia».

 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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