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Alcol e cannabis: un binomio da guardare con attenzione

Troppa confusione sulla cannabis, a cui l'industria strizza l'occhio (ma non per il nostro bene)

Alcol e cannabis: un binomio da guardare con attenzione

Di solito focalizzo la mia attenzione sull’alcol e sui suoi effetti sulla salute dell’uomo. Ma sempre più frequentemente le questioni di consumo rischioso o dannoso di alcol, specie tra i giovani e i giovani adulti, riguardano situazioni ben più complesse, determinate da una disinformazione che espone al rischio d’uso contestuale di alcol e altre droghe, prima di tutte la cannabis. Questo determina la necessità di un approccio alla comorbilità da sostanze - alle quali non si sottraggono la cocaina e le droghe sintetiche - dovendo considerare che le «canne», al pari dell'alcol, rappresentano la «porta d'accesso» verso altre forme di dipendenza da sostanze.


Cannabis, croce e delizia delle discussioni tra proibizionisti e antiproibizionisti, oggetto della discordia tra chi ne esalta alcune proprietà (che ne hanno favorito l’uscita dal limbo delle sostanze illegali in alcuni Stati nel mondo) e quanti ne sottolineano il danno (e la qualità di droga «ponte» verso altre forme di dipendenza legale e illegale). La generazione dei «baby boomers» ne aveva fatto sin da Woodstock, ai tempi della guerra del Vietnam, l’oggetto di rivoluzione e di libertà che i movimenti pacifisti, i «figli dei fiori» e le esperienze delle «comuni» resero protagonista in un approccio di condivisione tipico del mondo che ricercava il piacere capace di trascendere la realtà e di disinibire. Un simile approccio aveva comunque un rovescio della medaglia: quello di agevolare (non poco) la percezione del rischio e l’apertura all’uso di altre sostanze illegali, psichedeliche e non, che facevano e fanno del «trip» (il viaggio), la finalità condivisa da fasce eterogenee di persone di ogni età.


Ma c’è cannabis e cannabis. Quella per uso terapeutico, già oggetto di regolamentazione anche in Italia, ha un suo utilizzo, controllato, basato su indicazioni in continua evoluzione rispetto alle linee guida internazionali. A tale riguardo, il comitato di esperti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sulla tossicodipendenza si è riunito a Ginevra nei mesi scorsi per completare la revisione della cannabis e delle sostanze correlate alla cannabis. Per la prima volta è stata effettuata una revisione completa di queste sostanze, da quando le convenzioni per il controllo internazionale delle droghe sono stati istituiti nel 1961 e 1971. Il Comitato ha riconosciuto i danni per la salute pubblica presentati da queste sostanze, così come il loro potenziale per l'uso terapeutico e scientifico. Di conseguenza, pur garantendo che preparati farmaceutici derivati da cannabis possano esser resi disponibili per l'uso medico, ha raccomandato un sistema più razionale di controllo internazionale per la cannabis e per le sostanze correlate, teso a prevenire i danni legati alla droga. Le indicazioni sono state approvate dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e trasmesse al Segretario generale delle Nazioni Unite. La Commissione stupefacenti delle Nazioni Unite riunita a marzo per deliberare nel merito della riclassificazione delle sostanze in oggetto non ha potuto valutare la revisione e le raccomandazioni fornite e ha rimandato al 2020 la valutazione finale. Nel frattempo, però, altri organismi si sono già impegnati in tal senso: fornendo una guida per la valutazione d’uso di prodotti a base di cannabis per uso medico.


Tra questi il «Royal College of Physicians», che ha sconsigliato l’uso dei prodotti di prescrizione medica a base di cannabis in particolare rivolti all’attenuazione del dolore. Il presidente dell'ente è stato esplicito. «Non raccomandiamo nella pratica clinica routinaria l’uso di prodotti a base di cannabis perché, sebbene ci sia una qualche evidenza di efficacia, è necessario trattare 24 persone per ottenere il trenta per cento di riduzione del dolore in una singola persona. Riduzione del dolore quantificabile in un punteggio pari a 3, su una scala da zero a 100. Contemporaneamente, ha osservato il «Royal College of Physicians», è sufficiente trattare sei persone per causare un danno. La dispensazione negli ospedali è pertanto insostenibile: 25mila sterline l’anno (pari a 29mila euro) per persona, lì dove comunque esistono farmaci efficaci e meno costosi. Una considerazione finale ha puntualizzato che esiste ed è attiva un’incommensurabile pressione, da parte di un certo tipo d’industria, a voler vendere prodotti che non nascono per uso medico e che trarrebbero un profitto enorme dalla commercializzazione di «farmaci» di ancora debole evidenza terapeutica. In attesa delle linee guida e delle indicazioni dell'Istituto Nazionale per la Salute e l'Eccellenza nella Cura (Nice), che verranno prodotte a ottobre 2019, il «Royal College of Physicians» ha predisposto una guida e prodotto valutazioni sulla gestione del dolore oncologico e del dolore cronico, incluso quello causato dalla sclerosi multipla.


A proposito, una review della Cochrane di un anno fa ha concluso: «C’è mancanza di una buona evidenza che qualunque prodotto derivato dalla cannabis funzioni per qualunque dolore cronico neuropatico. I potenziali benefici dei prodotti a base di cannabis usati in medicina per il dolore cronico neuropatico potrebbero essere sproporzionati rispetti ai potenziali danni». Conclusioni robuste e rilevanti raggiunte anche in una rassegna di dati non prima non pubblicati e poi apparsi sulla rivista The Lancet Neurology: soltanto due dei nove trials considerati davano risultati confortanti, mentre gli altri sette mostavano risultati negativi rispetto all’efficacia sul dolore, un potenziale uso errato, la diversione e gli effetti di lungo termine sulla salute mentale causati dalla cannabis (in particolari nei soggetti suscettibili). 

In Italia, oltre alla questione dei prodotti terapeutici della cannabis, tiene banco il dibattito sull’uso ricreativo. Il motivo del contendere è legato all’approvazione, da parte del Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo (Mipaaf) dell’allora uscente governo, della legge numero 242 del 2016 («Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa»). Si tratta di un affaire non da poco, se si considera che in Italia sono stati coltivati a canapa quasi 4000 ettari in cinque anni (erano 400 nel 2013), contribuendo alla diffusione della coltivazione anche per esperienze innovative, con produzioni di bioplastiche, di alimenti, cosmetici e anche di «cannabis light». Il fiorire di negozi in tutta Italia ha sollevato polemiche e denunce e sollecitato l’intervento del Ministro della Salute Giulia Grillo, che ha anticipato una loro regolamentazione, avendo acquisito il parere formale del Consiglio Superiore di Sanità. Provando a sintetizzarlo in tre parole: non si fuma. Gli spiritosi hanno osservato che fumarsi la canapa è un po’ come fumarsi un espadrilla. Ma chi si occupa di prevenzione, pur apprezzando l’umorismo, sa è la quantità di tetraidrocannabinolo (Thc) assunta che fa la differenza sul cervello, in particolare su quello dei giovani sino ai 25 anni di età. 

Il termine «light» è usato da decenni dall’industria in maniera impropria e confondente nel merito degli effetti che qualunque prodotto (anche «light») è in grado di determinare in funzione di quantità crescenti di prodotto assunto, non del contenuto medio del prodotto. Vale per la birra come per i cibi, per le sigarette come, per l’appunto, per la cannabis sativa. Scriveva Paracelso che «il veleno è nella dose». La quantità di principio attivo contenuta nella cosiddetta cannabis «light» «non è certo una dose omeopatica», come ha affermato il farmacologo Silvio Garattini, presidente dell'Istituto Mario Negri di Milano. Il decreto di promozione della coltivazione della canapa pone i limiti di concentrazione di Thc nella pianta di cannabis sativa dello 0,2 per cento, che può arrivare anche allo 0,6 per cento accertabile dalle forze dell’ordine. Ma il Consiglio Superiore di Sanità ritiene che non possa essere esclusa la pericolosità di cui anche la cannabis «light» sarebbe responsabile specie per i giovani in cui il cervello ancora in fase di formazione è maggiormente vulnerabile all’uso di sostanze come alcol e Thc (con possibili danni cognitivi, di memoria e di orientamento). In assenza di ricerche che stabiliscano, tuttavia, se e come la concentrazione ammessa di Thc nei prodotti «light» possa avere tali effetti, l’applicazione del principio di precauzione suggerisce di evitare la vendita indiscriminata d’infiorescenze anche per non favorire, come spesso accade, che l’uso di una sostanza possa incrementare o favorire l’apertura all’uso di droghe più impegnative. 


«Non può essere esclusa la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa», si legge nel parere del Consiglio Superiore di Sanità, che raccomanda «che siano attivate nell’interesse della salute individuale e pubblica misure atte a non consentire la libera vendita». In definitiva è opportuno farsi furbi, almeno quanto chi pensa che l’italiano medio non capisca e si adegui a «scelte» che sono risultate da rivedere: nella forma e nella sostanza. Nel panorama politico, non possono non risaltare alcune contraddizioni che già hanno determinato la presentazione di proposte di legge che tenderebbero a favorire una legalizzazione di fatto della coltivazione in proprio della cannabis lì dove l’esigenza, già maturata in altre nazioni europee tra le quali il Portogallo, sarebbe quella di depenalizzarne l’uso, da un lato, e di regolamentarne rigorosamente l’uso dall’altro evitando la legalizzazione del «tutto a tutti»: specie in presenza di dati oggettivi che dimostrano l’incremento del rischio di salute mentale per i più giovani e del più elevato ricorso in tutta Europa ai servizi per le dipendenze di individui con età sempre più bassa e di altri che fanno uso di droghe più dannose e che comunque ammettono di essere partiti da alcol e canne prima di andare a ricercare qualcosa «in più» che ha coinciso con l’evoluzione verso livelli di tossicodipendenza più impegnativi.


Nel momento in cui «Big Pharma», «Big-Alcohol» e «Big-Tobacco» mostrano interesse per la cannabis, avviando investimenti miliardari per la produzioni di prodotti a base di cannabis e derivati, è opportuno che gli adulti competenti, lì dove le istituzioni mostrino maggiore sensibilità alla promozione del prodotto più che a quella della salute, si attivino e pongano soprattutto ai giovani tutti gli elementi di giudizio che possano favorire l’adozione di comportamenti di cui è bene conoscere gli effetti per scegliere bene, per vivere meglio.



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