Nel dibattito sull’intelligenza artificiale in sanità si finisce spesso per parlare di tutto ciò che è digitale: prenotazioni online, referti nel fascicolo elettronico, teleconsulto. Ma digitale e AI non sono sinonimi. Un’analisi realizzata da Datanalysis per conto della piattaforma MioDottore ha provato a fare chiarezza su come medici e pazienti guardino alla trasformazione in corso. Secondo l’indagine, il 79% dei pazienti cronici utilizza già strumenti digitali per gestire la salute e più della metà ritiene che l’AI cambierà il modo di curarsi. Anche tra i clinici prevale l’idea di una transizione imminente: il 76% dei medici di medicina generale e l’83% degli specialisti si aspetta che l’intelligenza artificiale modifichi la professione nei prossimi cinque anni. Una fotografia interessante che richiede però una distinzione fondamentale: quella tra sanità digitale e intelligenza artificiale clinica.
DIGITALE VS INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Ad oggi la quota elevata di utilizzo riguarda prima di tutto la sanità digitale. Prenotare una visita dal telefono, ricevere un referto elettronico o consultare il medico in videochiamata sono operazioni ormai familiari per molti pazienti cronici. Facilitano l’accesso ai servizi, ma non incidono sulle decisioni mediche. L’intelligenza artificiale, invece, interviene quando un sistema è in grado di analizzare dati sanitari complessi – immagini radiologiche, referti testuali, parametri biologici – e restituire valutazioni o raccomandazioni. È ciò che accade nei software sperimentali che riconoscono lesioni precoci o stimano la progressione di una malattia. La survey, però, non fotografa questo livello: registra percezioni e aspettative, non la reale diffusione di tali strumenti. Senza separare i due piani, si rischia dunque di attribuire alla sanità italiana un utilizzo dell’AI più avanzato di quanto sia oggi documentato.
LE ASPETTATIVE E I TIMORI
Entrando nel dettaglio della survey emerge un rapporto con la tecnologia ambivalente: i pazienti immaginano un ruolo crescente dell’AI nella cura, ma chiedono affidabilità, comprensibilità e un medico che resti al centro del processo. Da un lato sperano in percorsi più rapidi e diagnosi più precise, dall’altro temono che gli algoritmi possano ridurre la trasparenza delle decisioni o trasformarsi in un filtro tra loro e il clinico; i medici riconoscono che l’AI entrerà nel lavoro clinico, ma indicano difficoltà concrete: piattaforme complesse, scarsa integrazione tra sistemi, poco tempo per formarsi. In una sanità già segnata da carichi amministrativi elevati, ogni strumento che non alleggerisce rischia di creare ulteriore burocrazia. Per questo l’intelligenza artificiale richiede modelli organizzativi adeguati, non solo soluzioni tecniche.
DOVE L’AI È GIÀ UTILE AL MEDICO DI BASE
Tra le applicazioni più realistiche dell’AI nella pratica quotidiana rientrano i sistemi pensati per automatizzare la documentazione clinica. Alcuni medici di medicina generale stanno iniziando a utilizzare strumenti che registrano la conversazione durante la visita e generano in pochi secondi un resoconto strutturato: sintomi riferiti, anamnesi aggiornata, punti discussi, indicazioni finali. È un supporto che non interviene sulle decisioni, ma sui tempi della cura: consente di ascoltare il paziente senza dover trasformare mentalmente ogni informazione in testo da riportare nella cartella. In altre parole, è l’AI applicata alla parte più gravosa del lavoro burocratico. Non sostituisce il medico, non entra nella diagnosi, ma libera risorse cognitive e riduce una parte del carico amministrativo.
QUANDO L’AI FINISCE NELLE MANI DEI PAZIENTI
Esiste però un altro fronte, sempre più rilevante: l’uso dell’AI direttamente dai pazienti. Negli Stati Uniti ha fatto discutere il caso di una madre che, dopo dodici anni di consulti con specialisti di altissimo livello, è riuscita ad arrivare a una diagnosi per il figlio caricando in un modello di AI l’intero archivio clinico del ragazzo. L’algoritmo non ha “scoperto” la malattia, ma ha individuato correlazioni e ricorrenze che hanno aiutato il team clinico a intervenire in modo tempestivo, anziché sempre in emergenza.
Questa storia ha aperto un dibattito più ampio: quale ruolo può avere l’intelligenza artificiale quando viene utilizzata in autonomia dalle persone? Negli USA ci si interroga su quanta trasparenza sia necessaria, su quali funzioni possano essere offerte direttamente al pubblico e su come evitare che l’AI diventi un ulteriore filtro nella relazione medico–paziente. Gli attivisti parlano di una distinzione cruciale: AI istituzionale, che semplifica i processi del sistema, e AI del paziente, che dovrebbe aiutare le persone a orientarsi e capire.
VERSO LA FASE CLINICA
La transizione verso l’intelligenza artificiale clinica è appena iniziata. Le applicazioni oggi più mature sono quelle che alleggeriscono il lavoro amministrativo e quelle, in fase di studio, che analizzano grandi quantità di dati per individuare segnali precoci di malattia o personalizzare gli screening. Ma perché l’AI diventi parte reale dei percorsi di diagnosi e trattamento serviranno prove solide, integrazione nei sistemi e responsabilità chiare.


