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Cardiologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 04-06-2020

Coronavirus: interventi chirurgici più a rischio con il Covid-19



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Più complicanze e decessi in aumento tra i pazienti operati col Sars-CoV-2. Se possibile, meglio rimandare l'appuntamento col bisturi

Coronavirus: interventi chirurgici più a rischio con il Covid-19

Negli ultimi mesi, la maggior parte degli interventi chirurgici sono stati rimandati (28 milioni nel mondo, secondo una stima apparsa sulle colonne del British Journal of Surgery), per permettere al personale sanitario di affrontare la fase più critica della pandemia di Covid-19. A fronte di questa scelta, necessaria per massimizzare le possibilità di cura dei pazienti più gravi contagiati dal coronavirus, c’è stato però anche chi è stato costretto a entrare comunque in sala operatoria. Talvolta, nei casi di massima urgenza, anche se alle prese con la nuova malattia infettiva. Una necessità che ha finito per mettere a repentaglio la salute di queste persone: oltre che per il Covid, per un più alto rischio di complicanze polmonari nel periodo postoperatorio. Lo spaccato che emerge da uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet rimarca quanto delicata sia la scelta che può porsi di fronte a medici e pazienti, nel momento in cui occorre valutare i rischi e i benefici derivanti dall'esecuzione di una procedura chirurgica nel corso di una pandemia.


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I 29 autori della ricerca hanno analizzato il decorso di 1.128 pazienti operati tra l'1 gennaio e il 31 marzo in 235 ospedali di 24 nazioni (soprattutto Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti). Ampia la gamma di procedure considerate: da quelle di chirurgia generale a quelle oncologiche, da quelle ginecologiche (compresi i parti cesarei) a quelle urologiche. Nella lista sono rientrati anche gli interventi di cardiochirurgia, chirurgia ortopedicaneurochirurgiachirurgia vascolare ed epatobiliare. Obbiettivo dell'analisi: valutare gli esiti a trenta giorni dall'intervento, a partire dalla mortalità. I risultati hanno confermato come lo scenario peggiori, se a finire in sala operatoria sono pazienti alle prese col Covid-19. Dall'indagine è emerso infatti che quasi 1 malato su 5 (23.8 per cento) è deceduto entro un mese dall'intervento e oltre 1 su 2 (51.2 per cento) è andato incontro a complicanze polmonari. In questa categoria, la quota di decessi è stata superiore (38 per cento) rispetto al dato complessivo. 

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CHI SONO I PAZIENTI PIU' A RISCHIO?

I ricercatori hanno tracciato l'identikit dei pazienti più a rischio in caso di intervento: over 70 e uomini, dati in linea con quelle che sono le caratteristiche dei pazienti deceduti con il Covid-19 negli ultimi quattro mesi. L'analisi ha permesso inoltre di svelare le procedure più esposte alle complicanze. In cima alla lista, quelle di chirurgia maggiore (neurochirurgia, chirurgia toracica e addominale) e di urgenza, seguite da tutti gli interventi di chirurgia oncologica. Più in generale, la sindrome da distress respiratorio acuto, la polmonite e la necessità di un supporto respiratorio si sono manifestate più frequentemente in coloro che erano affetti anche da altre malattie. Oltre a correre il rischio di un contagio in ospedale, se non già positivi al Sars-CoV-2, i pazienti chirurgici sono esposti a un aumento della risposta infiammatoria e della coagulazione del sangue. Questa situazione, sommata alla risposta immunitaria all'infezione, può provocare quella che gli esperti definiscono la «tempesta perfetta»: da qui il rischio di vanificare l'esito di un intervento. Si spiegherebbe così la rilevazione di tassi di mortalità e, più in generale, di complicanze polmonari, «più alti di quelli associati ai pazienti che, prima della pandemia, consideravamo a maggior rischio», hanno messo nero su bianco i ricercatori. Tra cui, anche tre chirurghi italiani: Salomone di Saverio (Università dell'Insubria), Gaetano Gallo Francesco Pata (Università Magna Graecia di Catanzaro).


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Lo studio presenti due limiti: l'accorpamento di procedure chirurgiche molto diverse e la mancanza di un gruppo di controllo. Detto ciò, quello che si deduce è che finire sotto i ferri durante la pandemia può comportare diversi rischi in più. Un discorso valido tanto per chi non è entrato in contatto con il virus (più esposto al rischio di un contagio), quanto per chi ha già contratto la malattia infettiva (Covid-19). Da qui il dilemma: in questa situazione, è il caso di dare la priorità a un intervento chirurgico (con i rischi che potrebbero conseguirne) o alla guarigione dal Covid-19? Una risposta valida per tutti non c'è. Secondo gli autori dello studio, quando possibile, è meglio rimandare un'operazione (anche quelle considerate a rischio basso). O, se vi è un'opportunità, prediligere i trattamenti farmacologici: in sostituzione o nell'attesa dell'intervento. Una soluzione da prediligere soprattutto quando si ha di fronte un paziente con diverse malattie. Un discorso di questo tipo è però fattibile in alcuni casi, non in tutti. Si pensi per esempio a chi è chiamato a entrare in sala operatoria per asportare un tumore, a chi è vittima di un trauma importante, alle donne prossime ad affrontare un parto cesareo, a chi si accinge a un trapianto d'organo e a tutti coloro i quali sono chiamati a sottoporsi a procedure di cardiologia interventistica (per la cura dell'infarto) e di neurochirurgia vascolare (rivolte ai pazienti con un ictus cerebrale). In questi casi, il beneficio derivante dall'intervento è considerato comunque prevalente.

IN GIOCO ANCHE LA SICUREZZA DEL PERSONALE SANITARIO

Centellinare il ricorso alla chirurgia di elezione (pari a un quinto dei casi considerati), nel corso di una pandemia, è importante anche per evitare il contagio tra i medici. Perciò, anche ora che in Italia si cominciano a riaprire le sale operatorie a coloro che avrebbero dovuto subìre un intervento durante il lockdown, è il caso di considerare ogni paziente come un possibile infetto. E adottare, fino a prova contraria, tutte le misure precauzionali del caso. A partire dallo screening preoperatorio (possibile soltanto con il tampone: quando possibile, meglio aspettare l'esito prima di portare un paziente sul tavolo operatorio) fino all'utilizzo di tutti i dispositivi di protezione individuale (mascherina, guanti, cuffie, visiera, calzari) da parte dei camici bianchi. A ciò occorre aggiungere una serie di direttive legate agli ambienti ospedalieri che gli specialisti di diverse società scientifiche italiane (Sic, Acoi, Sicut, Sico, Sicg, Sifipac e Siaarti) hanno riassunto in un documento pubblicato sul World Journal of Emergency Surgery. L'indicazione di massima, quando il rinvio dell'intervento non è possibile, è quella di «coinvolgere il minor numero di professionisti», onde evitare che un eventuale contagio faccia il vuoto di operatori da mettere a disposizione di tutti gli altri pazienti. 

 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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