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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 15-06-2018

Tumore del colon-retto: meglio iniziare lo screening a 45 anni?



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L'ipotesi di anticipare lo screening per il tumore del colon-retto giunge dagli Stati Uniti, dove quasi una diagnosi su due avviene in adulti con meno di 50 anni. Ma in Italia ancora poche adesioni ai programmi

Tumore del colon-retto: meglio iniziare lo screening a 45 anni?

La sua efficacia non è in discussione: lo screening per il tumore del colon-retto può salvare la vita, perché una eventuale diagnosi precoce offre maggiori opportunità terapeutiche. Proprio per questo motivo, in ragione anche di un aumento dei casi prima dei 50 anni, soprattutto al di là dell'Atlantico, il dubbio è piuttosto un altro. Se oggi nel nostro Paese lo screening è offerto a uomini e donne a cadenza biennale tra i 50 e i 69 anni, anticiparne l'inizio è un'opportunità per ridurre l'impatto di una malattia che ogni anno in Italia colpisce 53mila persone e ne uccide quasi ventimila? Sì, secondo un gruppo di ricercatori statunitensi: il beneficio potrebbe essere massimizzato avviando la campagna a partire dai 45 anni.

PERCHE' LO SCREENING PER IL TUMORE
DEL COLON-RETTO PUO' SALVARE LA VITA?

NEGLI USA (QUASI) UNA DIAGNOSI SU DUE NEGLI UNDER 50

Il documento esprime la posizione ufficiale dell'American Cancer Society, la prima a prendere in considerazione l'ipotesi di anticipare l'avvio dello screening per il tumore del colon-retto. Pur convinti che la maggior parte delle diagnosi si verifichi una volta superati i 50 anni, gli oncologi statunitensi ritengono che sia il momento di accendere i riflettori sugli adulti più giovani che, a meno di un'acclarata familiarità o di una diagnosi già ricevuta di morbo di Crohn o di rettocolite ulcerosa, non si sottopongono ad alcun controllo preventivo. «Non sappiamo perché, ma è un dato di fatto che le persone nate più di recente hanno un rischio fino a quattro volte più alto di ammalarsi di cancro del colon rispetto a quello che alla loro stessa età avevano i nati negli anni '50 - afferma Richard Wender, presidente dell'American Cancer Society -. Conosciamo alcuni fattori di rischio: l'obesità, il fumo e il consumo di alcol. Ma nessuno di questi da solo è sufficiente a spiegare l'aumento dei casi tra le persone più giovani». Così, in attesa di scoprire cosa si celi dietro questo trend, l'obiettivo è scovare i tumori in una fase precoce e individuare i soggetti più a rischio, come chi per esempio convive già con i polipi intestinali


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Nella messa a punto del modello matematico che ha evidenziato un beneficio nell'anticipazione dell'età di inizio dello screening, gli oncologi non hanno indicato un test migliore di un altro: l'importante è anticipare l'inizio dei controlli, quanto agli esami è possibile scegliere tra i sei oggi riconosciuti come validi e utilizzati in tutto il mondo. Ovvero: l'esame delle feci (ricerca del sangue occulto, il test immunochimico fecale e il test al guaiaco), i test del Dna, la colonscopia virtuale e la sigmoidoscopia e la colonscopia (con cadenze diverse). Quest'ultima sarebbe comunque indispensabile come conferma, se qualsiasi degli esami precedenti desse un esito positivo o sospetto. Le indagini, secondo gli esperti, dovrebbero essere effettuate fino ai 75 anni. Nel decennio successivo, la valutazione dovrebbe riguardare il singolo caso: potrebbe essere opportuno portare avanti i controlli fino agli 85 anni su indicazione del proprio medico curante. Oltre, invece, i costi sarebbero sempre superiori ai potenziali benefici.

LA SITUAZIONE IN ITALIA

In Italia lo screening per il tumore del colon rientra nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), come quello per il tumore al seno e il tumore della cervice uterina. L'approccio in uso nel nostro Paese - per le persone sane e non considerate a rischio - prevede che, tra i 50 e i 69 anni, a cadenza biennale, uomini e donne effettuino su invito della propria Asl il test del sangue occulto nelle feci. Fa eccezione soltanto il Piemonte, che ha scelto una strada alternativa: rettosigmoidoscopia per tutti a 58 anni o, in alternativa, ricerca del sangue occulto nelle feci (fino a 69 anni). Ma un'ipotesi come quella statunitense potrebbe essere concretizzata nel nostro Paese? «In Italia le diagnosi di tumore del colon tra chi ha meno di 50 anni riguardano soltanto il cinque per cento del totale dei casi - afferma l'epidemiologo Marco Zappa, direttore dell'Osservatorio Nazionale Screening -. Fatta questa premessa, l'efficacia della strategia ipotizzata dai colleghi statunitensi non è in discussione: anticipando lo screening si intercettebbero dei polipi o delle lesioni prima che evolvano in un tumore del colon o del retto. La scelta di partire dai 50 anni è puramente organizzativa. Cominciando prima, però, aumenterebbe il numero delle colonscopie da effettuare. E, di conseguenza, si allungherebbero le liste di attesa».

IN PUGLIA LO SCREENING (QUASI) NON C'È

Leggendo i dati contenuti nell'ultimo rapporto dell'Osservatorio Nazionale Screening, si evince che nel 2016 gli inviti a eseguire i controlli sono stati inviati al 75 per cento della popolazione italiana prevista. In valore assoluto, sono stati chiamati 5,6 milioni di cittadini di età compresa tra 50 e 69 anni: 250mila in più rispetto al 2015. A rispondere è stato però soltanto il 40 per cento dei destinatari: per un totale di quasi 2,4 milioni di esami di screening effettuati. Un ulteriore taglio c'è stato sulle indagini di secondo livello, le colonscopie necessarie in seguito all'esito positivo delle prime indagini: ne sarebbero servite oltre 116mila, ne sono state effettuate poco più di novantamila. Rimangono profonde le differenze tra le diverse aree del Paese. Al Nord la copertura, intesa come invio degli inviti, è pressoché completa (oltre il 95 per cento). Va abbastanza bene anche nelle regioni del Centro Italia (più del 90 per cento), mentre è in continua sofferenza il Sud (45 per cento). Senza addentarsi troppo nei dettagli locali, merita di essere citato come esempio negativo la Puglia: l'unica regione in cui lo screening per il tumore del colon-retto è pressoché assente (5 per cento). 

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Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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