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Pediatria
Fabio Di Todaro
pubblicato il 22-04-2020

Allergia al latte vaccino: l'importanza di una corretta diagnosi



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L'allergia alle proteine del latte vaccino è descritta in aumento. Ma i sintomi associati non sono sempre da ricondurre a un problema alimentare

Allergia al latte vaccino: l'importanza di una corretta diagnosi

Assieme alle uova, il latte è il principale possibile responsabile di un’allergia alimentare nel corso dell’infanzia. A soffrirne, ufficialmente, sono meno di 2 bambini su 100. Il disturbo prevede un’unica soluzione: l’eliminazione dalla dieta di latte e derivati. Ma siccome la scelta ha un impatto non trascurabile nel corso dell’età infantile, è importante che si arrivi a questo punto soltanto dopo aver completato un iter diagnostico articolato. Cosa che non sempre avviene. Con due conseguenze, inevitabili e concatenate. Un'incidenza del disturbo superiore al quella effettiva. E molti bambini privati - senza una ragione - della possibilità di consumare latteyogurt e formaggi

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TROPPE DIAGNOSI IN ECCESSO

La questione emerge da un’analisi condotta da un gruppo di ricercatori dell’Imperial College (Londra) e dell’Università Sechenov (Mosca). Gli autori - il loro lavoro è apparso sulle colonne della rivista Jama Pediatrics - hanno passato in rassegna nove linee guida per la gestione dell’allergia al latte vaccino pubblicate in diversi Paesi tra il 2012 e il 2019. E hanno scoperto che le informazioni riportate in questi documenti possono perfino decuplicare il numero dei bambini apparentemente affetti dall’allergia alimentare. Molte diagnosi in più, che tali però in realtà non sono. A determinarle, secondo gli esperti, la tendenza a limitare la valutazione ad alcuni sintomi sospetti, ma non sufficienti per accertare un'allergia al latte vaccino. Indicazioni che da sole - il pianto eccessivo, il rigurgito del latte, la diarrea - in molti casi portano invece gli specialisti a indurre l’esclusione dalla dieta di un alimento prezioso per lo sviluppo di un bambino.


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MA IN ITALIA I PEDIATRI FANNO LA DIFFERENZA

Nell’analisi, i ricercatori fanno riferimento alle pressioni delle industrie del «baby food», citando l’aumento significativo di vendite di prodotti sostitutivi registrato in Inghilterra e in Australia tra il 2000 e il 2018: senza che di pari passo sia aumentata la diffusione dell’allergia al latte vaccino. Uno scenario che non sembra però riguardare l’Italia. «La presenza dei pediatri di libera scelta è un filtro che in altri Stati non esiste: per questo nel nostro Paese non si registra un eccesso diagnostico - afferma Michele Miraglia Del Giudice, docente di pediatria e allergologia all'Università della Campania Luigi Vanvitelli di Napoli -. La preparazione e il confronto costante con le famiglie permettono generalmente di evitare sia la sovradiagnosi sia l'esclusione del latte dalla dieta di un bambino. I risultati testimoniano l’efficacia della loro azione. Stando a quando riferiscono i genitori, il dieci per cento dei loro figli sarebbe allergico alle proteine del latte vaccino. Ma l’intervento dei pediatri e, se necessario, il ricorso ai test, restituisce il dato effettivo: inferiore al 2 per cento».


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LA DIAGNOSI DI ALLERGIA ALIMENTARE

I sintomi ripresi nell’analisi pubblicata su Jama Pediatrics - con l’orticaria, l’angioedema e i disturbi gastrointestinali respiratori (rinite e asma, seppur rari) - possono essere la «spia» di un’allergia alimentare. Ma non è detto che nascondano sempre un problema di questo tipo. Per questo, di fronte a simili campanelli d'allarme, occorre approfondire le indagini. Come detto, il riferimento per i genitori è il pediatra di libera scelta, quasi sempre in grado di completare l’iter diagnostico. Una volta visitato il bambino e ricostruita la storia (allergica) familiare, il primo passo prevede che venga eseguito il prick test, nel quale una goccia di alimento viene messa a contatto con la pelle per verificare la presenza di una reazione cutanea. Solo in casi selezionati può essere necessario valutare la presenza nel sangue  delle immunoglobuline tipiche degli allergici (IgE. immunoglobuline E). Tuttavia, per la certezza della diagnosi è necessario il test di provocazione orale. È questo - in caso di sospetto clinico - l’iter diagnostico per la diagnosi di qualsiasi allergia alimentare. Il test di provocazione orale prevede la somministrazione dell’alimento «sospetto» sotto il controllo del medico: sia per valutare i sintomi che compaiono subito dopo sia per far fronte a eventuali complicanze (talora anche gravi). Soltanto dopo questo, si può avere la conferma della presenza di un'allergia al latte vaccino. 

ALLERGIA AL LATTE VACCINO: QUANDO NON C’ENTRANO LE IgE

A determinare la reazione immediata dopo l’ingestione di un alimento sono le IgE, anticorpi che si attivano contro la componente non tollerata di un alimento. Nel caso del latte vaccino, le proteine in questione sono tre: la caseina (la più reattiva), l’alfa-lattoalbumina e la beta lattoglobulina. Ma l’allergia al latte può talora prescindere dall’azione delle IgE. In questo caso si parla di allergia non IgE-mediata e la comparsa dei sintomi (vomito, diarrea, dolore addominale e sangue nelle feci) non è così tempestiva. Motivo per cui, in questi casi, il prick test può dare un esito negativo. Di fronte a un simile scenario, se i sintomi lasciano comunque il sospetto di un’allergia, per la diagnosi «occorre escludere il latte per 2-3 settimane e verificare se, al controllo, il quadro è migliorato e il peso del bambino è aumentato», precisa Vito Leonardo Miniello, responsabile dell’unità operativa di nutrizione pediatrica dell’ospedale Giovanni XXIII di Bari. Sarà l'esito di questa valutazione a guidare le scele successive. 


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L’ALLERGIA AL LATTE GUARISCE QUASI SEMPRE

La terapia di prima scelta di tutte le allergie alimentari - da non confondere con l’intolleranza al lattosio: la cui reazione non coinvolge il sistema immunitario ed è diretta contro uno zucchero - consiste nell’eliminazione dell’alimento causale dalla dieta. «La dieta di esclusione ha comunque quasi sempre un inizio e una fine - aggiunge Miraglia Del Giudice, che è anche vicepresidente della Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica (Siaip) -. Entro i 3 anni di vita, 9 bambini su 10 risolvono il problema e possono tornare a consumare il latte vaccino, i suoi derivati e i prodotti che lo contengono come ingrediente». La conferma la si ha sottoponendo nuovamente il bambino al prick test e al test di provocazione orale. Nel mentre, il latte viene sostituito dagli «idrolisati spinti»: prodotti di origine vaccina o vegetale (riso, soia) acquistabili generalmente soltanto in farmacie e parafarmacie, in cui le proteine sono scisse in peptidi talmente piccoli da non essere riconosciuti dal sistema immunitario. Nelle forme più gravi, ma sempre dietro il consiglio di un allergologo pediatra, si può ricorrere alle miscele amminoacidiche (contenenti un «cocktail» di amminoacidi liberi, non assemblati in peptidi). Sono invece da escludere «tutte quelle bevande di origine vegetale che spesso chiamiamo latti, ma che tali non sono - precisa lo specialista -. Mi riferisco ai cosiddetti latti di mandorla, di riso e di soia che troviamo in tutti i supermercati. Sono bevande non adatte ai più piccoli, dal punto di vista nutrizionale».


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QUALE PREVENZIONE? 

Le allergie alimentari dei più piccoli possono essere prevenute? Si sa, per esempio, che un genitore che fuma espone a un rischio più alto il proprio figlio. Idem dicasi per le mamme che escludono il latte dalla dieta in gravidanza, se non a loro volta allergiche. Una volta venuto alla luce il neonato, infine, la migliore difesa è rappresentata dall'allattamento al seno. «Per quanto rari, questi disturbi vengono riscontrati quasi sempre nei bambini alimentati fin dai primi giorni con il latte artificiale - chiosa Miraglia Del Giudice -. L’allattamento da parte della madre è una protezione in più per le allergie alimentari. E tanto più è prolungato, meglio è». Per il latte vaccino, meglio aspettare che un figlio abbia superato almeno l'anno di vita.  

 

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Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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