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Neuroscienze

Il peso nascosto dei disturbi somatoformi

Una nuova analisi mostra che questi disturbi sarebbero il secondo problema di salute mentale più gravoso al mondo. Eppure restano esclusi dal Global Burden of Disease, sottostimati e stigmatizzati

Un senso di oppressione al petto, fiato corto, tachicardia, stanchezza cronica. Ma, nonostante le ripetute visite specialistiche, non viene trovata nessuna patologia organica. I disturbi somatoformi sono ancora oggi fortemente sottovalutati, al punto da essere esclusi dal Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study (GBD), lo studio internazionale condotto periodicamente per valutare la prevalenza e il carico sanitario delle malattie nel mondo.

Un nuovo studio pubblicato su The Lancet Psychiatry stima che i disturbi somatoformi colpiscano un adulto su 21 nel mondo (prevalenza 4,6%). Se fossero inclusi nel Global Burden of Disease (GBD) risulterebbero il secondo disturbo mentale più gravoso, subito dopo la depressione. Un dato che contrasta con la loro scarsa visibilità clinica e con la tendenza persistente a considerarli disturbi “minori”, spesso fraintesi o etichettati come immaginari.

LO STUDIO

Se inseriti nella classifica, i disturbi somatoformi si porrebbero come il secondo disturbo mentale più gravoso a livello globale, subito dopo i disturbi depressivi e prima dei disturbi d'ansia. I ricercatori hanno analizzato 41 studi (per un totale di 122.000 individui) pubblicati tra il 1980 e il 2024 sulle diagnosi cliniche dei disturbi somatoformi. In questo modo sono riusciti a stimare una prevalenza di queste condizioni del 4,6%: circa un adulto su 21 vive con un disturbo somatoforme.

COSA SONO I DISTURBI SOMATOFORMI

Nel tempo queste condizioni sono state chiamate in molti modi: isteria fino all’inizio del '900; disturbi somatoformi; disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati; disturbo da distress corporeo o dell’esperienza corporea. «Si tratta di manifestazioni che si esprimono con sintomi fisici a fronte dei quali non è possibile individuare cause somatiche dopo aver effettuato tutti gli appropriati accertamenti diagnostici», spiega Luigi Grassi, professore ordinario di psichiatria dell'Università di Ferrara. «Sono quindi dovuti a una componente psicologica e interpersonale, spesso associata a condizioni di stress che si presenta con un'espressione a livello di sintomi somatici».

La forma più comune è il disturbo da sintomi somatici, in cui il paziente prova sintomi fisici “reali”, come dolore o affaticamento, ma li vive con un’ansia costante che compromette la qualità della vita, portando a volte alla depressione. C’è poi il disturbo da ansia di malattia (che in passato era noto come ipocondria), in cui la persona è dominata dalla paura infondata e dalla convinzione di avere una grave patologia, interpretando catastroficamente ogni minima sensazione corporea. Il disturbo di conversione, invece, si manifesta con sintomi neurologici specifici – come paralisi o perdita di sensibilità – che insorgono senza lesioni organiche, spesso come risposta inconscia a traumi psicologici o forti stress.

UNA DIAGNOSI COMPLESSA

Come sottolineano gli autori dell’articolo, non è semplice formulare una diagnosi. I sintomi sono eterogenei e si sovrappongono con quelli di altri disturbi mentali (come ansia e depressione). Inoltre, sottolinea Grassi, proprio per la natura del disturbo i pazienti riportano tutto al corpo e visitano gli specialisti di riferimento in base ai sintomi, evitando chi in realtà potrebbe aiutarli: psichiatri e psicologi clinici. «Chi avverte sensazioni di peso al torace o fiato corto si rivolge al cardiologo, chi presenta dolori, parestesie, formicolii o tremori al neurologo o al reumatologo, chi avverte irritazione a livello degli organi genitali al ginecologo e così via. Nel momento in cui lo specialista ipotizza che il problema sia psichico il paziente si rivolge a un altro medico: l’idea che ci sia un coinvolgimento mentale è in contrasto con il progetto, più o meno inconscio, di rendere tutto corporeo e somatico», spiega l’esperto.

Si manifesta quindi il fenomeno del doctor shopping o doctor zapping, con consulenze ripetute a medici sempre diversi: frustrante per i clinici che non trovano soluzioni, per il paziente che non vede risposta ai propri sintomi e dispendioso per il Servizio Sanitario. «In tutto questo svolge un ruolo certamente lo stigma che avvolge ancora tutto ciò che riguarda la salute e la patologia mentale».

IL MECCANISMO HA ORIGINE NELL’INFANZIA

Il meccanismo psicologico che porta le persone a sviluppare questo tipo di disagio nasce in genere nel corso dell’infanzia. «In alcuni casi le persone hanno vissuto in famiglia esperienze negative con la malattia fisica: genitori o fratelli o sorelle con patologie somatiche possono portare il bambino a cogliere la centralità e, al contempo, la pericolosità di un corpo, che può ammalarsi e che va quindi monitorato costantemente. In altri casi può accadere che la persona cresca con genitori poco attenti al linguaggio delle emozioni, per cui il bambino impara che se prova paura, ansia o dispiacere viene ignorato, mentre se manifesta sintomi fisici riceve attenzione. Impara allora che l’unico linguaggio capito è quello del corpo». Anche gli abusi infantili possono essere alla base dei disturbi somatoformi, nel momento in cui il trauma viene trasferito non sul versante psicologico ma sulla presenza di sintomi somatici.

COME DISTINGUERLI DA MALATTIE FISICHE

La distinzione tra disturbi somatoformi e malattie da cause ancora sconosciute non è semplice. La fibromialgia e la sindrome da fatica cronica fino a non molto tempo fa erano considerate condizioni puramente psichiatriche. Così come la neuropatia delle piccole fibre, che causa dolori intensi e formicolii e che può essere diagnosticata con esami medici solo da pochi decenni.

«Quello che può guidarci nel riconoscere un problema di natura psicologica è la quantità di sintomi molto elevata e il modo in cui la persona li affronta, con un’attenzione costante al proprio corpo e con preoccupazione», precisa Grassi.

SUPERARE LA SEPARAZIONE TRA MENTE E CORPO

Il problema di fondo, secondo lo psichiatra, risiede nella visione rigidamente categoriale della medicina, che tende ancora a separare nettamente la mente dal corpo: da un lato la psichiatria, dall'altro le varie sotto-specializzazioni mediche organizzate secondo un modello anatomico.

«In quest'ottica, il corpo viene frammentato in sistemi e apparati distinti, dove le specializzazioni si focalizzano sulla struttura anatomica piuttosto che sulla funzione unitaria dell'organismo. Manca, dunque, una visione d'insieme che permetterebbe di comprendere e trattare adeguatamente anche queste forme di disturbo. L'obiettivo deve essere quello di porre attenzione alle molteplici componenti dell'individuo: parliamo di una medicina biopsicosociale, o della persona in senso “umanocentrico”».

IL RUOLO DEL MEDICO DI BASE

La gestione di queste malattie è complessa, sia perché vengono sottovalutate, sia perché non è semplice identificarle. «Questi pazienti sono molto sfidanti soprattutto per i medici di medicina generale. L’ideale sarebbe, una volta fatti gli accertamenti fisici, che il medico riesca a comunicare in modo efficace», commenta l’esperto. «Facendo prima di tutto psico-educazione, spiegando che il nostro organismo reagisce al contesto ambientale attraverso sistemi di allerta: quando si prova paura, per esempio, si attiva il sistema ortosimpatico che provoca sensazioni fisiche prima ancora che mentali, come tachicardia, mancanza di fiato, tensione muscolare. Mente e corpo sono un tutt’uno e quindi abbassare il carico di stress può aiutare».

Sempre in un contesto ideale, il medico di base dovrebbe continuare a monitorare il paziente, per farlo sentire al sicuro rispetto ai sintomi fisici e contestualmente proporgli di cominciare una psicoterapia.

COME TRATTARE I DISTURBI SOMATOFORMI

A questo punto il terapeuta dovrebbe agire in maniera integrata con il medico di base, portando avanti un lavoro che mantenga al centro il corpo. «L’esercizio fisico, ad esempio, è molto importante perché riporta l’attenzione su un corpo che funziona bene. Sono utili anche la meditazione corporea, le terapie di rilassamento, lo yoga, la mindfulness e altri interventi a mediazione corporea. Bisogna intervenire sul mentale molto lentamente, partendo dalle sensazioni fisiche».

Lo psichiatra suggerisce anche l’utilità di interventi di gruppo, guidati da una figura esperta in salute mentale, da un medico di medicina generale, da un fisioterapista, da un operatore della riabilitazione.

Sono invece sconsigliati i farmaci, visto che in questa situazione la persona è già fin troppo medicalizzata. «Gli ansiolitici, in particolare le benzodiazepine, possono ridurre la tensione muscolare e quindi alleviare un po’ i sintomi, ma creano dipendenza e non risolvono il problema», precisa Grassi. «Possono essere utili quando alla base della condizione c’è un disturbo depressivo, ma è una valutazione complessa che spetta allo psichiatra».

GRUPPI DI CONFRONTO PER I MEDICI DI MEDICINA GENERALE

Questa visione ideale della presa in carico dei pazienti si scontra però con una realtà che la ostacola. L’Italia soffre di una grave carenza di medici di medicina generale, la maggior parte dei quali sovraccarica di pazienti: molti superano il limite dei 1.500 assistiti. Alle telefonate continue si sono aggiunte mail, ricette dematerializzate e messaggi WhatsApp. Si stima che fino al 60% del tempo di un medico di base sia dedicato a compiti burocratici. Il tempo per l’ascolto si riduce, e il disagio di chi ha sintomi non spiegabili viene sottostimato.

«Per molti anni mi sono occupato di gruppi di incontro per medici di medicina generale, che potrebbero rappresentare una risposta a queste difficoltà», propone Grassi. «Per un’ora alla settimana i medici si riuniscono in piccoli gruppi e condividono i casi più complessi con i colleghi e con chi conduce l’incontro, in genere uno psicoterapeuta. In questo modo emergono le difficoltà — anche emotive — del medico e ci si confronta. Può essere anche uno strumento per imparare tecniche comunicative che facilitano il rapporto con il paziente affetto da disturbi psicologici».

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