La generazione “#FridaysForFuture” , gli eventi ambientali gravi e il Covid-19 hanno aperto la fase della sostenibilità di massa.

Sostenibilità sostenibile

di Prof. Michele Costabile - Professore Ordinario, Università Luiss di Roma

 

L’attenzione alla sostenibilità si è definitivamente diffusa su larga scala. In parte grazie alla cosiddetta generazione “#FridaysForFuture” e alla loro iconica eroina Greta Thumberg, che ha trascinato in piazza milioni di giovani, come in occidente non accadeva da oltre mezzo secolo. In parte grazie al crescente numero di eventi, più o meno gravi o disastrosi, che (a torto o a ragione) sono stati ricondotti al degrado ambientale e sociale e hanno consentito di abbassare una soglia dell’attenzione altrimenti bloccata in alto da una combinazione di bias della disponibilità (i.e. “se un problema non mi investe non è davvero importante e non me ne curo”) e di bias dell’ottimismo (vera e propria illusione di invulnerabilità). In parte - forse la parte più pesante e dirompente – quale effetto di un’ondata di millenarismo catastrofista che ha interpretato la pandemia da Covid-19 quale segno inequivocabile di un dio della carnage che vendica il pianeta martoriato e l’umanità esclusa, colpendo selettivamente paesi ricchi ed economie appagate, responsabili primi di ingiustizie sociali e inquinamento ambientale. Insomma la combinazione di tutto questo, e probabilmente di altro ancora, ha aperto la fase della sostenibilità di massa.

Superata la fase del pionerismo visionario di pochi, tuttavia, la nuova scala con cui dovremo confrontarci pone nuove sfide. Fra le altre certamente è impegnativa, e lo sarà sempre di più, quella di innovare nella capacità di progettare e industrializzare una “sostenibilità sostenibile”, fatta cioè di iniziative ben bilanciate sulle convenzionali tre dimensioni – ambientale, sociale ed economica ovvero di governance nella prospettiva della singola impresa e del suo finalismo valoriale (ESG l’acronimo che impazza ormai da qualche anno) – ma anche in grado di aggiungere e sperimentare dimensioni della sostenibilità nuove o ibride, fino a oggi trascurate. Dimensioni che consentano di raggiungere e superare la soglia della razionalità economica “ecologica”. La soglia oltre la quale i processi trasformativi si autoalimentano grazie a comportamenti diffusi e spontanei – non solo di razionalità deliberativa e per questo ecologici -, ispirati da autentica convenienza individuale e da motivazioni economiche e politiche condivise da tutti gli attori, appunto, dell’ecosistema. È questa, infatti, la condizione che ci metterà in grado di sostenere nel tempo una più ampia e intensa sostenibilità ambientale e sociale.

Le nuove dimensioni per una sostenibilità più sostenibile

Ma quali sono le nuove dimensioni su cui concentrarsi, anche solo a fini di sperimentazione, per una sostenibilità più sostenibile?

È presumibile che ve ne siano diverse e che saranno “scoperte” via via che la larga scala del fenomeno da intenzionale diventerà reale. Di certo vi sono dimensioni di mercato. Mercato di consumo da un lato, mercato finanziario dall’altro. Mercati con cui sinora, la portata tutto sommato limitata del fenomeno reale – chè quello dichiarato è ancora oggi, purtroppo, più ampio per i noti  fenomeni di sustainability-washing – non ha davvero fatto i conti nello sviluppo dei “marketing plan” né dei “business plan” delle iniziative e degli investimenti per la sostenibilità.

Per quanto riguarda i mercati di consumo, infatti, una delle regole più importanti per il successo duraturo di un’offerta sostenibile è la capacità di generare valore per il consumatore nel tempo. Valore da interpretare, utile ripeterlo, nella logica del consumatore. E se, grazie alla sensibilità oggi intensa e diffusa, i benefici di offerte sostenibili sono certamente molto più apprezzati rispetto al passato, da un numero sempre più ampio di consumatori, è pure vero che soddisfazione, fiducia e fedeltà dei consumatori si conquistano e si consolidano nel tempo solo accrescendo i benefici della sostenibilità (certamente psico-sociali per il cliente) in misura coerente con le altre dimensioni del “customer value”. E quindi con altri benefici (in genere funzionali), magari ben bilanciati con costi-sacrifici che lo stesso cliente deve sostenere per acquisire e godere nel complesso del valore atteso. In altre parole, il beneficio della sostenibilità (psico-sociale) non regge nel tempo se opera in trade off  a somma zero con benefici funzionali (per esempio un package sostenibile ma non abbastanza robusto che quindi non protegge o non è ben trasportabile) o altri benefici psico-sociali, insomma se opera ma a discapito di attributi di performance rilevanti per il cliente. E ancora regge poco – e solo sull’onda dell’entusiasmo iniziale – se il costo monetario (prezzo) della sostenibilità è troppo elevato ovvero se altre categorie di costi (di reperimento, di apprendimento all’uso, di uso continuativo, di smaltimento, ecc.) sono scaricati sul cliente in misura eccessiva. Si pensi per esempio a offerte sostenibili che, per quanto psicologicamente e socialmente gratificanti per i clienti, hanno performance più scadenti oppure richiedono ai clienti un sacrificio eccessivo di tempo e di altre attività complementari all’uso, come nel caso dei sistemi di riciclo dei rifiuti troppo complessi e per nulla “citizen-frienldy” (con impliciti messaggi di fustigazione del tipo “se consumi e godi devi poi soffrire”).  In sintesi, la sostenibilità dei consumi sarà tanto più sostenibile nel tempo, e quindi di successo, quanto più la progettazione delle innovazioni – ambientali e sociali – sarà in grado di accrescere il valore globalmente offerto ai consumatori, bilanciando i benefici percepiti (che in molti casi devono essere anzitutto efficacemente comunicati) con i differenziali negativi di performance e di costo che eventualmente producono. E su questo terreno le innovazioni tecnologiche (per esempio nei materiali) e quelle organizzative (per esempio nelle logistiche) sono una delle chiavi di volta della sostenibilità sostenibile.

Per quanto riguarda i mercati finanziari la sfida è per certi versi analoga. La ben nota sostenibilità economica non riguarderà solo l’essenziale bilanciamento fra costi delle innovazioni sostenibili e ricavi ma investirà i modelli di business adottati da una nuova “economia della sostenibilità sostenibile”. Il convenzionale fund raising che agisce su leve filantropiche non basta. Bisogna iniziare a pensare a modelli ibridi di “smart funding”. Da un lato aiuterà molto la diffusione delle benefit corporation, e quindi la destinazione di quote rilevanti del valore generato a iniziative di sostenibilità ambientale e sociale. Una destinazione che sarà di valore soprattutto se purpose related, e quindi coerente con finalismo imprenditoriale, vision e mission aziendale. Dall’altro però sarà necessario sperimentare, e su scala molto ampia, modelli per la valorizzazione delle risorse (competenze e relazioni) che l’economia della sostenibilità e del terzo settore ha sviluppato in quantità negli ultimi decenni. Gli esempi sono tanti. Da quello di una nota ong Statunitense, Resolve (www.resolve.ngo), che si è specializzata nella sorveglianza intelligente di ambienti naturali (parchi naturali a fini antincendio e antibracconaggio; miniere a fini di controllo su pratiche di sfruttamento illecito; ecc. ecc.) fino a lanciare una start-up tecnologica, impact@RESOLVE (impactatresolve.com), in grado di proporre al mercato sistemi e servizi di sorveglianza particolarmente innovativi, facendo leva su capacità uniche sviluppate, appunto, in contesti no profit. A quello di Academy Rapido, start-up edtech che sta sperimentando con risultati straordinari un nuovo modello di formazione e inclusione nel mondo del lavoro con più elevato fabbisogno di competenze (digital skills gap) per i c.d. NEET (Not in Education, Employment or Training), una vera e propria piaga sociale – oltre che economica -, soprattutto in Italia e nei paesi di cultura latina. Academy Rapido ha una value proposition naturalmente duale: offre valore alle imprese in carenza di competence digitali, necessarie a sviluppare il loro business, ma al contempo ha uno straordinario potenziale generativo di valore sociale, considerando l’elevata percentuale di successo con cui i percorsi formativi offerti ai NEET vengono completati e conducono a uno stabile inserimento/reinserimento nel mondo del lavoro.

E mentre nel primo caso il modello duale vede la componente filantropica estendersi per la generazione di risorse su più larga scala nel business as usual; nel secondo è il business as usual che genera un prodotto collaterale (by product) ad elevatissimo valore sociale che potrebbe evolvere verso un modello duale formalizzato con lo sviluppo di una entità filantropica sinergica a quella di business.

Insomma, ora che tutti abbiamo accettato la sfida della sostenibilità la nuova frontiera è quella di impegnare tecnologie e intelligenza gestionale e di mercato per renderla davvero sostenibile. Una sfida entusiasmante e certamente salutare, per l’ambiente e il benessere sociale.

 

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