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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 30-04-2018

Tumore del colon-retto: tre mesi di chemioterapia possono bastare



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L'indicazione è valida per i pazienti già operati per un tumore del colon-retto al terzo stadio, ma a basso rischio di recidiva. In questo modo si mitigano gli effetti neurotossici della chemioterapia

Tumore del colon-retto: tre mesi di chemioterapia possono bastare

Al primo posto c'è sempre l'intervento chirurgico, necessario per rimuovere un tumore del colon dal corpo di un paziente. A seguire la chemioterapia, indicata per eliminare eventuali cellule tumorali residue e ridurre il rischio di una recidiva.

I trattamenti standard per le neoplasie al terzo stadio (in cui la malattia ha già colpito uno o più linfonodi situati vicino all'intestino) sono di norma della durata di sei mesi. Ma le evidenze raccolte negli ultimi dieci anni appaiono solide al punto da poter lasciar immaginare un dimezzamento temporale.

La chemioterapia, per questi pazienti, potrebbe presto limitarsi a tre mesi: senza che ciò intacchi i benefici. Non è un aspetto di poco conto, perché gli effetti collaterali non sono trascurabili.


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COME MODULARE LA CHEMIOTERAPIA?

A lasciare immaginare un simile scenario è un lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine, che riporta nero su bianco i dati già presentati in occasione del congresso Asco del 2017.

Gli autori, tra cui gli italiani Alberto Sobrero (direttore dell'oncologia medica del policlinico San Martino di Genova) e Roberto Labianca (direttore del Cancer center dell'ospedale Giovanni XXIII di Bergamo), hanno raccolto le informazioni relative a quasi tredicimila pazienti, già arruolati in sei studi randomizzati condotti per valutare se il trattamento chemioterapico di tre mesi avesse la stessa efficacia di quello di sei: rispondente alle attuali linee guida per il trattamento del tumore del colon-retto al terzo stadio.

Obiettivo del loro lavoro - s'è trattato di una metanalisi, di fatto - era andare oltre l'esito dei singoli studi per provare a tirare le somme circa la possibilità di accorciare i tempi della terapia. Dai risultati è emerso che uno dei due schemi chemioterapici utilizzati in questi pazienti - il cosiddetto Capox: con una combinazione di oxaliplatino e capecitabina - è risultato avere la stessa efficacia tanto con tre mesi di trattamento quanto con sei.

L'evidenza ha riguardato i pazienti a basso rischio di recidiva, che corrispondono all'incirca al settanta per cento di tutti coloro che s'ammalano di un tumore del colon di stadio 3. Nello specifico, in questo gruppo rientrano coloro che hanno valori del parametro «T» (rappresenta l'estensione della malattia rimossa chirurgicamente) compresi tra 1 e 3 e del parametro «N» (più è basso, minore è il umero di linfonodi interessati dalla malattia) non superiore a 1.  

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L'esigenza di provare a ridurre i tempi della chemioterapia nasce dagli effetti neurotossici riscontrabili su molti pazienti che seguono quello che è il protocollo per i pazienti già operati per un tumore del colon al terzo stadio.

Le indicazioni delle principali società scientifiche, in uso anche in Italia, prevedono che, subito dopo l'intervento, queste persone siano sottoposte a un periodo di chemioterapia della durata di sei mesi, secondo due protocolli terapeutici: il Capox e il Folfox (un mix di fluorouracile, acido folinico e oxaliplatino). Per entrambi (oltre alla comparsa di nausea, diarrea, fatigue, mucositi e sindrome mani-piedi) c'è però un problema di neurotossicità, indotta dall'oxaliplatino, e consistente nella comparsa di una neuropatia periferica (con disturbi a livello sensoriale, motorio e di controllo degli organi interni) che può durare anche a lungo (in molti casi per la parte restante della vita).

La ricerca in questione ha svelato che il trattamento secondo lo schema Capox potrebbe essere ridotto a tre mesi, senza che ciò impatti sullo stato di salute dei pazienti a tre anni dall'inizio delle cure. La sopravvivenza a tre anni, infatti, è stata dell'83,1 per cento nel primo caso (trattamento per tre mesi) e dell'83,3 per cento nel secondo (chemioterapia per sei mesi).

Quanto alla neurotossicità, invece, è stata sostanzialmente inferiore nel primo gruppo. Lo stesso non è accaduto invece nei pazienti trattati con il protocollo Folfox, per cui il trattamento di sei mesi continua a determinare tassi di sopravvivenza sensibilmente più alti e tali da giustificare l'eventuale comparsa di una neuropatia periferica.  

 

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Come tradurre queste evidenze in indicazioni utili per i pazienti colpiti da un tumore del colon? D'ora in avanti sarà sicuro per loro - se rientranti nella categoria presa in esame - chiedere una chemioterapia adiuvante di durata inferiore per ridurre limpatto degli effetti collaterali? Secondo Sobrero «ci sono già le indicazioni per evitare trattamenti di sei mesi in pazienti a basso rischio, dal momento che con una cura dimezzata si può ridurre la neurotossicità anche del 50 per cento. Questo anche perché il protocollo Capox ha dimostrato determinare tassi di sopravvivenza leggermente più alti, mentre fino a poco tempo fa eravamo convinti che tra questo e il Folfox non ci fosse praticamente alcuna differenza».

Indicazione che, in occasione dell'ultimo congresso della Società Europea di Oncologia Medica (Esmo), era stata data anche da Eric Van Cutsem, alla guida del dipartimento di oncologia medica dell'università di Leuven (Belgio) e coordinatore delle linee guida che descrivono lo standard terapeutico per i pazienti colpiti da un tumore del colon metastatico. Lo scenario cambia se il paziente è invece considerato ad alto rischio di recidiva.

In questo caso lo standard rimane la chemioterapia per sei mesi dopo l'intervento chirurgico, anche a costo di una tossicità maggiore. Più cauta invece Cathy Eng, oncologa specializzata nella cura dei tumori gastrointestinali dell'Anderson Cancer Center di Houston (Stati Uniti). «L'obiettivo primario dello studio non è stato pienamente raggiunto. Occorre essere chiari con i pazienti, sopratutto con quelli ad alto rischio, per cui lo standard dovrebbe rimanere quello dei sei mesi».

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Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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