Il tumore al seno metastatico è la forma avanzata del carcinoma mammario, in cui le cellule tumorali della mammella si diffondono in altre parti del corpo tramite il sangue o il sistema linfatico. In Italia, non esistono dati precisi che registrano esattamente i tumori in fase avanzata, ma si stima che tra il 6-7% deicasi annui dei tumori al seno presenti metastasi già alla prima diagnosi e si ipotizza che la prevalenza complessiva includa almeno 37.000 donne che vivono con carcinoma mammario metastatico. Negli ultimi anni la sopravvivenza è migliorata grazie a terapie sistemiche più efficaci e a un uso più mirato dei trattamenti locali.
Che cos’è
Il tumore al seno metastatico è la fase più avanzata del carcinoma mammario, in cui le cellule tumorali sono uscite dal sito primario nella mammella e si sono diffuse ad altre parti del corpo attraverso il sangue o il sistema linfatico. Le metastasi non sono tumori “nuovi”: sono formate da cellule provenienti dal tumore originario e mantengono le stesse caratteristiche biologiche, ad esempio lo stato dei recettori ormonali (ER, PR) e di HER2, anche se in alcuni casi questi possono modificarsi nel tempo.
La differenza principale rispetto al tumore al seno non metastatico — che può essere confinato alla mammella o ai linfonodi regionali — è che, nella malattia metastatica, il tumore ha già superato i confini anatomici locali e coinvolge organi a distanza. Le sedi più frequenti di diffusione sono ossa, polmoni, fegato e cervello, ma le metastasi possono localizzarsi anche in altre aree dell’organismo.

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Fattori di rischio e prevenzione
Il rischio di sviluppare metastasi dipende da elementi tumore-correlati (stadio iniziale, dimensioni e grado, interessamento linfonodale, sottotipo biologico e risposta alle terapie), ma anche da fattori della storia clinica (tempo intercorso dalla diagnosi iniziale, comorbidità) e dall’età. Le forme HER2-positive e triplo negative hanno una propensione maggiore alle metastasi precoci; la presenza di mutazioni BRCA1/2 può condizionare sia il decorso sia le opzioni terapeutiche successive. La riduzione del rischio delle metastasi passa attraverso diagnosi precoce, trattamenti efficaci della forma iniziale, adesione ai follow-up e pronta rivalutazione alla comparsa di nuovi segni/sintomi.
Sintomi
I sintomi variano in base alle sedi coinvolte. Le metastasi ossee possono causare dolore persistente, rischio di fratture e, se colpiscono la colonna, compressione midollare con urgenza clinica; le metastasi polmonari si associano a tosse, dispnea o versamento pleurico; quelle epatiche a stanchezza marcata, dolore ipocondriale destro, alterazioni degli esami di funzionalità epatica; le metastasi cerebrali a cefalea, disturbi neurologici focali, alterazioni visive o cognitive. Non di rado la malattia è inizialmente asintomatica e viene rilevata dagli esami di stadiazione o di monitoraggio. Il riconoscimento tempestivo dei sintomi e la loro gestione, anche con terapie di supporto e palliative integrate precocemente, sono parte essenziale dell’assistenza.
Diagnosi
La diagnosi/stadiazione richiede anamnesi accurata, esame obiettivo e esami ematochimici per valutare condizioni generali e idoneità ai trattamenti. La biopsia di una lesione (primitiva o metastatica) è raccomandata per confermare l’istologia e rivalutare i biomarcatori (recettori ormonali e HER2), che possono modificarsi rispetto al tumore iniziale; quando disponibile, l’analisi di PD-L1 guida l’impiego dell’immunoterapia nel triplo negativo avanzato.
Per l’imaging sistemico, l’algoritmo di base prevede TC torace-addome e scintigrafia ossea (preferibilmente con SPECT/TC per maggiore specificità); la PET/TC con 18F-FDG ha maggiore accuratezza per metastasi viscerali e scheletriche (tranne l’encefalo) e viene impiegata quando le metodiche convenzionali non sono conclusive. In caso di sospetta compressione midollare è indicata una RM del rachide; per i sottotipi TNBC e HER2+ o se sintomatiche, la RM encefalica è la metodica di scelta per la ricerca di metastasi cerebrali. Per il monitoraggio della risposta al trattamento si combinano valutazioni clinico-laboratoristiche ed esami strumentali a intervalli di norma ogni 3-4 mesi, modulando la frequenza in base a cinetica e sedi di malattia e al tipo di terapia.
Cure e trattamenti
Le scelte terapeutiche sono guidate dal sottotipo e dalla storia terapeutica.
Tumori HER2-positivi. In prima linea lo standard è il doppio blocco anti-HER2 con trastuzumab e pertuzumab associati a un taxano. In seconda linea, trastuzumab deruxtecan ha mostrato superiorità rispetto a T-DM1; tra le opzioni successive figurano T-DM1 e la combinazione tucatinib + trastuzumab + capecitabina, utile anche in presenza di metastasi cerebrali.
Tumori HR-positivi/HER2-negativi. La combinazione di endocrinoterapia con un inibitore di CDK4/6 (palbociclib, ribociclib, abemaciclib) è lo standard di prima linea, preferibile alla chemioterapia salvo urgenze cliniche (crisi viscerale). Nelle linee successive la sequenza dipende dai trattamenti già eseguiti e dal tempo al fallimento; possono essere impiegati everolimus + exemestane, altri switch endocrini, e — in presenza di mutazione PIK3CA — alpelisib + fulvestrant. Per pazienti con mutazione germinale BRCA1/2, talazoparib è un’opzione approvata; per mutazione ESR1 il degradatore del recettore elacestrant (un SERD orale) ha mostrato beneficio e potrà entrare stabilmente nelle scelte laddove approvato/rimborsato.
Tumori triplo negativi. Nei PD-L1 positivi lo standard di prima linea è immunoterapia (pembrolizumab o atezolizumab) + chemioterapia. Dopo almeno due linee di terapia sistemica, sacituzumab govitecan (anti-TROP2) è indicato nelle forme metastatiche o localmente avanzate non resecabili. Nelle pazienti con mutazione germinale BRCA1/2 sono disponibili gli inibitori di PARP (olaparib o talazoparib). Nei casi non candidabili a terapie mirate o immunoterapie, la chemioterapia resta il trattamento di riferimento, soprattutto nelle malattie aggressive o in crisi viscerale.
Altre considerazioni terapeutiche. Le metastasi HER2-low possono beneficiare di trastuzumab deruxtecan dopo pretrattamenti appropriati. Nelle situazioni oligometastatiche e per sedi particolari, i trattamenti locoregionali (chirurgia selezionata, radioterapia stereotassica, radioterapia encefalica o a singole lesioni) possono contribuire al controllo della malattia e dei sintomi, in un contesto multidisciplinare. Le cure di supporto sono parte integrante del percorso (gestione del dolore, terapia delle metastasi ossee, prevenzione delle complicanze, supporto nutrizionale e psico-sociale) e dovrebbero essere introdotte presto in parallelo alle terapie attive.
Prognosi e sopravvivenza
La sopravvivenza mediana nella malattia avanzata varia ampiamente in base al sottotipo (più lunga in HER2+ e HR+/HER2-, più breve nel triplo negativo) e alle linee di terapia disponibili. I dati di coorti recenti mostrano miglioramenti sostanziali, in particolare nelle forme HER2-positive grazie ai nuovi farmaci mirati. Nella presentazione metastatica de novo la sopravvivenza a 5 anni risulta superiore rispetto alla malattia recidivata, a sottolineare la diversa biologia e risposta alle cure. La personalizzazione terapeutica — inclusa la rivalutazione dei biomarcatori nelle metastasi — è cruciale per ottimizzare gli esiti nel tempo.
Le 5 domande più frequenti sul tumore al seno metastatico
No. Nella maggior parte dei casi non è guaribile, ma oggi può essere trattato come una malattia cronica. Grazie a terapie mirate e sequenziali, molte pazienti mantengono a lungo una buona qualità di vita.
Perché lo stato dei recettori ormonali e HER2 può cambiare rispetto al tumore iniziale. Questa variazione può aprire nuove opzioni terapeutiche più mirate ed efficaci.
Si utilizza quando TC e scintigrafia ossea non forniscono informazioni complete o servono valutazioni più precise delle metastasi viscerali e scheletriche. Per sospette metastasi cerebrali, la metodica di riferimento è la risonanza magnetica.
Sì. Le opzioni includono radioterapia mirata (anche stereotassica), terapie sistemiche con capacità di attraversare la barriera emato-encefalica e, in casi selezionati, chirurgia, sempre all’interno di un team multidisciplinare.
Sono fondamentali sin dall’inizio: aiutano a controllare sintomi e dolore, prevenire complicanze come fratture ossee e migliorare qualità di vita e aderenza ai trattamenti.