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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 10-05-2021

Immunoterapia meno efficace se il tumore dà metastasi al fegato



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I risultati calano se si ricorre all'immunoterapia con un tumore già esteso al fegato. Combinare la radioterapia per una maggiore efficacia?

Immunoterapia meno efficace se il tumore dà metastasi al fegato

L’immunoterapia rappresenta la novità più importante, sul fronte delle cure oncologiche. Il suo avvento ha modificato le sorti di molti pazienti affetti dallle forme metastatiche del melanoma e dei tumori del polmone, del rene e della vescica. Dopo oltre dieci anni di esperienza, però, si è capito anche che non sempre fornisce i risultati sperati. «La sfida per il futuro è capire perché questo accada e migliorarne l’efficacia», aveva detto il premio Nobel James Allison nel corso di «The Healthcare to Come», la conferenza organizzata da Fondazione Umberto Veronesi nel 2019. Una risposta utile, in questo senso, potrebbe venire dallo studio del fegato. La risposta all’immunoterapia sembra infatti inferiore nei pazienti in cui il tumore genera metastasi epatiche.

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Il dato emerge da uno studio pubblicato condotto dai ricercatori del Michigan Rogel Cancer Center di Ann Arbor e pubblicato sulla rivista Nature Medicine. Gli autori hanno esaminato i dati tratti da 718 pazienti affetti da tumori differenti - al rene, al polmone, alla vescica e melanomi - oggi trattati anche con l’immunoterapia. Osservando le loro condizioni, la correlazione è parsa evidente: l’esito delle cure era peggiore in chi aveva già metastasi epatiche. E ciò indipendentemente dalle caratteristiche istologiche e dal profilo molecolare della malattia. Al di là dell’osservazione, però, il gruppo di ricerca ha provato a spiegare anche perché. Come? Andando a studiare il microambiente tumorale in cui si erano formate le metastasi epatiche. E scoprendo che le cellule neoplastiche annidatesi nel fegato sono in grado di «sequestrare» i linfociti T che, stimolati dai farmaci immunoterapici, dovrebbero invece aggredire il tumore. Ma non solo. Quello che si è visto infatti è che i linfociti risultavano ridotti anche in altre parti del corpo. Di conseguenza, in presenza delle metastasi epatiche, «diventa più difficile affrontare la malattia puntando sul sistema immunitario: indipendentemente dagli organi a cui risulta estesa», è quanto messo nero su bianco dai ricercatori. Scenario che non è invece stato registrato tra coloro che, con analoga malattia, erano stati trattati con la chemioterapia o con terapie di precisione.

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QUALI TUMORI POSSONO DARE METASTASI AL FEGATO?

Se questi risultati fossero confermati, le ricadute potrebbero riguardare migliaia di pazienti. Il fegato è infatti uno degli organi più spesso colpito dalle metastasi dei tumori che partono dallo stomaco, dal colon-retto, dal polmone, dal seno e dal rene. Anche il melanoma tende a generare metastasi a distanza a livello epatico. Considerando l'ampia eterogeneità e i numeri di questa malattie, si intuisce quanto in prospettiva possa essere importante capire in che modo la più grande ghiandola del nostro corpo contribuisca a ridurre l'efficacia dell'immunoterapia. Ma perché proprio il fegato è una sede di elezione delle metastasi? A sintetizzare le ipotesi più plausibili è Nicola Normanno, direttore della struttura complessa di biologia cellulare e bioterapie dell'Istituto Nazionale dei Tumori Fondazione Pascale di Napoli. «Occorre considerare che il fegato è un organo molto vascolarizzato, irrorato centinaia di volte al giorno da grandi quantità di sangue. Così, quando una persona ha un tumore, è più probabile che le cellule neoplastiche che entrano nel torrente circolatorio si annidino in quest'organo piuttosto che in un altro». La seconda rimanda al tropismo di alcuni tumori verso determinati organi: è il caso per esempio di quelli della tiroide e della prostata nei confronti delle ossa (frequente sede di  metastasi) e di quelli del polmone verso il surrene. «È questa l'ipotesi avanzata a più riprese nella teoria del seme e del terreno (seed and soil in inglese, ndr)», aggiunge Normanno. L'«accoglienza» che una cellula tumorale riceve in un organo diverso da quello di partenza «guida la possibilità di formare o meno metastasi a distanza».

IL RUOLO DEL FEGATO NELLA RISPOSTA IMMUNITARIA

Il fegato è un organo chiave per il benessere del nostro organismo. Lavora a tutti gli effetti come una centrale energetica, in cui si completa il metabolismo dei macronutrienti (carboidrati, proteine e grassi). Ed è anche la «sentinella» che neutralizza le sostanze tossiche rilasciate nell'organismo da una cattiva alimentazione, da uno scorretto stile di vita e dall’assunzione di farmaci o di altre sostanze. Le sue interazioni con il sistema immunitario sono molteplici e costanti. Prova ne è per esempio la capacità di indurre una tolleranza immunologica (consistente nella incapacità del sistema immunitario di rispondere a un determinato antigene) in quei pazienti affetti da malattie autoimmuni, colpiti da infezioni virali o sottoposti a un trapianto d'organo. Sulla base di queste conoscenze, non è irrealistico immaginare un coinvolgimento del fegato anche nei meccanismi di risposta a una malattia oncologica. 


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COMBINARE IMMUNOTERAPIA E RADIOTERAPIA

Un fegato colpito dalle metastasi sarebbe dunque in grado di sequestrare i linfociti T - i «poliziotti» del sistema immunitario - e andare a neutralizzare sul nascere l'efficacia dell'immunoterapia. Una volta svelato il meccanismo di soppressione della risposta immunitaria, però, i ricercatori hanno cercato anche la chiave per ripristinarla. E l'hanno trovata - almeno nel modello animale - nella radioterapia. Utilizzando dei topi affetti da metastasi epatiche, i ricercatori hanno misurato l'efficacia dell'uso delle radiazioni ionizzanti direttamente nel fegato. A differenza di quanto osservato nell'uomo - in cui le metastasi epatiche vengono di norma trattate con la chirurgia, con la somministrazione di un farmaco direttamente in loco (chemioembolizzazione) o con l'uso del calore generato dalle radiofrequenze (radioablazione) - il risultato è stato incoraggiante. Lo stop all'attività immunosoppressiva della ghiandola ha permesso ai linfociti T di riattivare la risposta immunitaria nei confronti delle cellule tumorali: nel fegato, ma anche in altri organi. L'ipotesi potrebbe divenire una di quelle da considerare - oltre alla combinazione di diversi farmaci in grado di interferire con il microambiente epatico - per potenziare l'efficacia dell'immunoterapia.  

 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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