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Francesca Borsetti
pubblicato il 06-02-2023

Neuroblastoma: alla ricerca di nuovi bersagli molecolari grazie a Zebrafish



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Lo studio dei meccanismi biologici che regolano la diffusione metastatica può aprire la strada a nuove terapie contro il neuroblastoma chemioresistente: la ricerca di Diana Corallo

Neuroblastoma: alla ricerca di nuovi bersagli molecolari grazie a Zebrafish

Il neuroblastoma è un tumore del sistema nervoso simpatico periferico ed è responsabile di circa il 15% della mortalità per cancro nell'infanzia. Si sviluppa da cellule staminali delle cosiddette “creste neurali” (una struttura embrionale dal quale si forma una parte delle strutture del sistema nervoso periferico) e presenta un'ampia eterogeneità clinica e biologica, caratteristica che lo rende molto difficile da trattare. Questa caratteristica diventa ancora più spiccata quando il paziente è in stadio metastatico. Le cellule metastatiche sono anche responsabili della recidiva della malattia a causa della loro resistenza alla chemioterapia e nonostante l’introduzione di nuove strategie nel corso degli anni, il tasso di sopravvivenza dei pazienti in stadio metastatico non è significativamente migliorato. Sono quindi necessari nuovi approcci terapeutici in grado di ostacolare la sopravvivenza delle cellule tumorali.

Diana Corallo è ricercatrice presso l’Istituto di Ricerca Pediatrica Fondazione Città della Speranza di Padova, dove studia il ruolo della proteina LIN28B nell’insorgenza e progressione del neuroblastoma. Studi precedenti hanno mostrato come questa proteina sia legata alle capacità invasiva del neuroblastoma, ma i meccanismi non sono ancora chiari. Il progetto prevede l’impiego di modelli cellulari tridimensionali e del pesce zebra (Zebrafish, nome scientifico Danio rerio), un comune pesce d’acqua dolce ampiamente utilizzato nella biologia dello sviluppo e in genetica. Il suo progetto sarà sostenuto per il 2023 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto GOLD for Kids, dedicato alla ricerca e alla cura dei tumori infantili.

 

Diana, come nasce l'idea del vostro lavoro?

«Nasce dall’esigenza di contribuire allo sviluppo di nuove terapie contro il neuroblastoma metastatico, un tumore pediatrico la cui forma più aggressiva -a oggi- ha limitate opzioni terapeutiche».

Perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?

«Nel passato si è scoperto molto della biologia di questo tumore, ma servono ulteriori studi. In particolare bisogna capire come le cellule metastatiche di neuroblastoma raggiungono il midollo osseo e lo colonizzano e come poterle bersagliare con terapie farmacologiche più specifiche ed efficaci».

Quali sono le vostre domande?

«Ci siamo chiesti come possiamo colpire le cellule tumorali metastatiche in modo efficace e specifico, per poterle nuovamente rendere sensibili alla chemioterapia».

Come intendete portare avanti il vostro progetto durante quest’anno?

«Intendiamo svolgere la ricerca proposta all’interno dell’Istituto ospitante che ci fornisce strumentazioni e tecnologie innovative e attraverso il confronto costante con collaboratori ed esperti esteri. Utilizzeremo colture cellulari tridimensionali per gli studi in vitro e il pesce Danio rerio per gli studi in vivo. Questo vertebrato è ampiamente utilizzato negli studi della biologia dello sviluppo e di diverse patologie umane».

Quali prospettive apre per la salute umana?

«Questo studio potrebbe aprire nuove prospettive per la cura dei pazienti affetti da neuroblastoma metastatico. Inoltre, lo studio dei meccanismi biologici che regolano la diffusione metastatica potrà contribuire alla comprensione di altri tumori pediatrici con un elevato tasso di metastasi».

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Sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?

«Ho frequentato laboratori di collaboratori esteri per brevi periodi di tempo e non ho mai avuto l’esigenza di prolungare la mia permanenza all’estero. Mi piacerebbe visitare laboratori in cui si svolgono ricerche uniche al mondo, per poter collaborare con scienziati di grande livello».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Ho deciso di intraprendere questa strada vista la mia forte curiosità, il desiderio fin da piccola di capire come funziona il corpo umano e per la mia indole analitica».

C’è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare?

«Quello in cui ho deciso di cambiare argomento di ricerca».

Dove ti vedi fra dieci anni?

«In un laboratorio!».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il fatto che sia super partes».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Il contributo negativo di chi non riconosce l’importanza della ricerca scientifica in ambito medico, ma anche per lo studio della biologia di base».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Gioie e dolori, come in un matrimonio!».

C’è una figura che ti ha ispirato nella tua vita?

«Sono molte le persone alle quali mi ispiro quotidianamente, non necessariamente del mio ambito lavorativo».

Qual è l’insegnamento più importante che porti con te?

«Prendendo ispirazione da persone che svolgono lavori diversi dal mio, ho capito l’importanza dello scambio multidisciplinare tra competenze diverse».

Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?

«Mi sarebbe piaciuto fare la fisioterapista».

Al di là dei contenuti scientifici, cosa ti spinge a fare ricerca?

«L’aspetto sociale del mio lavoro diventa ogni giorno più importante: la consapevolezza di fare parte di un sistema che ha come unico obiettivo la conoscenza e la salute umana non ha prezzo».

In cosa, secondo te, può migliorare la comunità scientifica?

«Potrebbe migliorare laddove si perde di vista l’obiettivo per il quale si è deciso di intraprendere questa carriera. Consiglierei a queste persone di trovare la loro strada altrove, senza vivere questo cambiamento come una sconfitta personale e professionale».

E da chi, invece, potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?

«Da chiunque ci metta impegno e interesse spassionato!».

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Credo che in Italia esistano sentimenti contrastanti in molteplici settori, incluso quello scientifico. Penso che una adeguata comunicazione rivolta a un pubblico non specialistico possa ridurre fortemente questo sentimento, ma non sono sicura che possa cancellarlo completamente».

Cosa fai nel tempo libero?

«Mi piace ascoltare musica, fotografare e stare a contatto con la natura».

Hai famiglia?

«Ho un compagno e due gatti, non so se possa valere…».

Se un giorno tuo figlio o tua figlia ti dicesse che vuole fare ricerca, come reagiresti?

«Per fortuna i gatti non parlano!».

Una cosa che vorresti assolutamente vedere almeno una volta nella vita?

«Un elenco infinito di luoghi e città nel mondo. Vorrei viaggiare e visitare più posti possibili!».

La cosa di cui hai più paura?

«I ragni, come nelle precedenti interviste a FUV, del resto. Purtroppo la mia fobia ancora non è scomparsa, ma ci sto lavorando».

Sei soddisfatta della tua vita?

«Sì, anche se ambisco a migliorarla ancora».

Hai un ricordo a te caro di quando eri bambina?

«L’amore dei miei genitori e dei miei fratelli».

Con chi ti piacerebbe andare a cena una sera e cosa ti piacerebbe chiedergli?

«Mi sarebbe piaciuto incontrare Letizia Battaglia, la fotografa recentemente scomparsa, per chiederle come è riuscita a riempire i suoi scatti di sentimenti».

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Donare a sostegno della ricerca scientifica è un atto di altruismo e di grande impegno sociale, che permette a molti laboratori di svolgere ricerche essenziali per il progresso delle terapie. La ricerca non è qualcosa di intangibile e che interessa pochi, ma un tassello importante per il progresso delle scienze e della società. Del resto la storia ci insegna che molte patologie in passato incurabili, oggi non lo sono più. Per poter sfruttare al meglio le più recenti tecnologie in ambito scientifico, è necessario un impegno economico cospicuo per i laboratori e i gruppi di ricerca. Grazie alle donazioni è possibile trovare una cura o migliorare l’efficacia di terapie già esistenti e questo impatta sulla società e sul futuro delle prossime generazioni. Donare significa capire e aiutare chi è in difficoltà, dando speranza a chi è affetto da una patologia e non ha ancora avuto la possibilità di vivere a pieno la propria vita». 

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