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Le subdole strategie del tumore

Cos'è davvero un tumore? Che cosa vuole ottenere all’interno dell’organismo? E’ soltanto un ammasso di cellule impazzite, fuori controllo, come si è sempre pensato?

Le subdole strategie del tumore

Cos'è davvero un tumore? Che cosa vuole ottenere all’interno dell’organismo? E’ soltanto un ammasso di cellule impazzite, fuori controllo, come si è sempre pensato? Pier Paolo Di Fiore, professore ordinario di patologia generale all’Università degli Studi di Milano, ha una teoria un po’ diversa da quella classica. «Le cellule neoplastiche - spiega - meritano più rispetto molecolare, come lo chiamo io, di quanto finora abbiano ottenuto. Ovviamente, non sto dicendo che bisogna amare il cancro (sarebbe assurdo), ma è fondamentale capire com’è organizzato, quale fine insegue, per poterlo combattere meglio».

Negli ultimi anni gli scienziati si sono resi conto, innanzitutto, che il tumore non è un sacchetto di cellule senza una struttura precisa. E’ un organoide, che tende a riprodurre l’organo dal quale è partito: l’unica cosa che conosce. Per molti aspetti, anche le cellule sane fanno la stessa cosa, ma quelle tumorali hanno alcuni geni modificati (a volte solo quattro o cinque, sui 25.000 totali): piccole variazioni, quasi sempre, che però provocano danni “esterni” notevoli.

Il tumore prende il via da cellule staminali alterate (ormai di questo gli oncologi sono sicuri) e mette in atto un vero e proprio piano di organogenesi, come dicono i tecnici, cioè un progetto di “costruzione”, lottando disperatamente per realizzarlo. «Da questo punto di vista, il tumore non fa altro che riconnettersi a un istinto primordiale, che potremmo anche definire “di libertà” - aggiunge Di Fiore - e in questo suo percorso utilizza uno dei motori dell’Evoluzione: replicarsi il più rapidamente possibile, avere più discendenti rispetto ai “rivali” che si trovano accanto. E’ una legge applicata anche da molti microrganismi: se un batterio, per esempio, grazie a qualche mutazione genetica impara a dividersi più rapidamente degli altri batteri, può competere molto più efficacemente per le risorse disponibili e trasmette meglio il suo Dna». Anche le cellule tumorali seguono questa strategia, all’interno, però, di un ecosistema troppo piccolo, come l’organismo umano.

Pure le cellule sane hanno (avrebbero) questa stessa tendenza, ma sanno, per così dire, che non possono permettersi di seguire l’istinto evolutivo, e dunque non si duplicano più rapidamente delle altre. La struttura in cui si trovano  (l’organismo, appunto) le aiuta a sopravvivere,  ma impone anche una serie di limiti fondamentali alla loro libertà. Il primo risuona così: ci si può moltiplicare solo quando è necessario. E’ un po’ quello che capita, per altri aspetti, anche agli individui: sicuramente gli uomini che centomila anni fa vivevano nelle foreste primordiali dovevano seguire meno regole, e avevano meno vincoli, rispetto a quelli di oggi, ma morivano molto più facilmente. In una società organizzata, invece, si sopravvive  meglio, ma bisogna sottoscrivere un patto sociale. Quello che le cellule tumorali non vogliono, o non possono, fare.

In uno scenario da pura fantascienza, il “progetto” del cancro potrebbe funzionare, forse, solo se il nostro organismo vivesse mille o duemila anni, non 70 o 80. In un tempo così lungo, la competizione fra la “libertà” evolutiva dei tumori e la società organizzata delle altre cellule potrebbe forse trovare un equilibrio, com’è accaduto, nel corso dell’Evoluzione, a certi tipi di virus, che hanno ridotto la loro pressione e l’aggressività, per non uccidere i loro “contenitori  (gli esseri umani) e dunque loro stessi, applicando una sorta di intelligenza collettiva. Ma nei tumori questa intelligenza non c’è.

Paolo Rossi Castelli



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